L’ingrugnito in azienda

L’ingrugnito in azienda

Il malcontento dei dipendenti

Ho voluto scrivere questo articolo a seguito di un incontro con un titolare d’azienda che chiedeva una soluzione per alcuni suoi dipendenti problematici, come da lui stesso definiti.

Con questa espressione, il titolare, intendeva coloro che si lamentano sempre davanti alla macchinetta del caffè oppure che brontolano durante tutta la giornata di lavoro. Il suo punto di vista includeva esclusivamente il comportamento di queste persone ma non includeva alcuna riflessione sulle abitudini lavorative aziendali che potevano essere responsabili di un atteggiamento così ostile. Pertanto, per quell’uomo, la causa del malcontento dei suoi dipendenti nasceva dalla poca voglia di lavorare e dalla naturale tendenza ad essere “ingrugniti”..

In italiano “grugno”, da cui deriva l’espressione ingrugnito, significa “espressione afflitta” e con esso intendiamo spesso qualcuno che vive nel malcontento e quindi il suo volto e il suo atteggiamento esprimono disapprovazione continua. Ma ciò che è curioso è che in inglese . l’equivalente del sentimento di malcontento, viene definita con un termine più creativo del nostro ossia “disgruntlement” che deriva da “gruntles” cioè quei lievi sbuffi che i maiali fanno per scacciare le mosche dal muso. Comprenderete come l’espressione linguistica stabilisca il modo con cui definiamo le cose e, in questo caso, la sfumatura del malcontento non è sicuramente associata ad un’immagine nobile.

Come gestivano l’emotività le aziende?

Dopo la 1° guerra mondiale, nacque in America la figura dello psicologo aziendale il cui compito era quello di prevenire le agitazioni tra i lavoratori e garantire il maggior tasso di produttività. Si era convinti che l’emozione più pericolosa in azienda fosse l’angoscia, più che il risentimento o il malcontento, ed era considerato il primo problema di natura emotiva per le aziende. Si credeva che l’ansia derivasse dall’insicurezza del posto di lavoro e quindi era necessario che le aziende coltivassero il senso di appartenenza tra i dipendenti. ( I lavoratori IBM negli anni 30 dovevano tutti cantare in coro l’inno dell’azienda che tradotto in italiano diceva “Qui e ora, noi siamo grati di prestar fedelissimo giuramento all’azienda migliore di tutte …. “Right here and now, we thank-fully, pledge sincerest loyalty, to the corporation that’s best of all”).

Proprio con gli anni 30 negli Stati Uniti nascono i Dipartimenti di relazioni industriali , quello che oggi chiamiamo “Risorse Umane“, che avevano lo scopo di supervisionare i dipendenti con test per tenere sotto controllo la loro “introversione e altre carenze comportamentali”.

A seguito, negli anni 80′ e 90′, iniziò un lungo periodo di “think positive” ossia l’addestramento del personale a innescare modelli di pensiero positivo. Dalla vendita fino alla gestione dei clienti, la bibliografia aziendale si è impegnata a diffondere il verbo dell’ottimismo forzato che quasi tutti noi, credo, ne abbiamo avuto un assaggio ( mi riferisco per esempio alla filosofia dell’ottimismo di Dale Carnige, Roberto Re e altri performer aziendali).

L’allegria recitata davanti al cliente, atteggiamenti costantemente positivi difronte a frustrazioni commerciali, il sorriso “sincero” e l’empatia sono stati i lait motive di questi ultimi vent’anni causando molta più vulnerabilità e confusione di quanto si immagini e diminuendo la consapevolezza di cosa stava realmente accadendo, soprattutto a lungo termine.

Potete chiederlo alle assistenti di volo di alcune compagnie aeree, ai Presidenti Americani, ai dipendenti di Disneyworld, il cui livello di stress è a livelli altissimi per via della felicità recitata quotidianamente.

Sii flessibile!

Oggi, oltrepassato il millennio, viviamo in un’economia mobile e dinamica e la “flessibilità” è il valore che più di tutto chiedono le aziende ai propri dipendenti. La “flessibilità” è oggi una caratteristica preziosa che però non si capisce bene cosa sia.

Di fondo, secondo il mio pensiero, c’è un forte messaggio incongruente.

Da una parte esiste la necessità dell’azienda di fare continui cambiamenti interni all’organico ( funzioni, ruoli, azioni e strategie) che non garantiscono più ai dipendenti la sicurezza del proprio impiego ma al contrario alimentano le paure di essere riassegnati a ruoli e funzioni diverse o di perdere promozioni e opportunità. Esiste anche l’aumento progressivo del controllo sulle performance che generano alti livelli di stress. Dall’altro abbiamo bisogni insoddisfatti di persone che si trovano a vivere in un contesto privo di sicurezza questo perché spesso il messaggio che passa è “siate emotivamente coinvolti ma siate pronti a essere sostituiti senza problemi“.

Non si tratta di trovare chi ha colpa o chi ha ragione ma semplicemente rendersi conto che spesso un’azienda può mandare messaggi discordanti al suo interno e questo produce “ingrugniti”, per usare il termine del titolare d’azienda che ho incontrato, ossia persone che sentono malcontento per ciò che fanno rispetto a ciò che sentono e rispetto a ciò che viene chiesto loro. Se il messaggio è discordante allora anche il comportamento di risposta lo sarà.

Che si fa?

L’aumento del malcontento, in azienda, potrebbe essere una conseguenza di conflitti all’interno di una cultura aziendale che chiede ai dipendenti di essere flessibili, adattabili e disponibili difronte ad atteggiamenti di controllo, di comunicazione contraddittoria e di azioni apparentemente prive di senso, ossia di spiegazione. Questo è ciò che sperimento spessissimo quando lavoro con le aziende.

Quindi, per concludere, il mio consiglio è quello di porre attenzione a due direzioni sui messaggi che invio rispetto a quelli che ricevo. Se non sono consapevole che nella mia azienda esiste una cultura schizofrenica sarò circondato da moltissimi “ingrugniti”

Bibliografia di riferimento “Tiffany Watt Smoth, Pubblicazione La Repubblica 2017

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